Takashi
di Gaby Oshiro

“Aprite la porta, abbiamo un ordine di perquisizione”, disse una voce appena dopo che il campanello suonò nello studio legale di Oscar Oshiro e dei suoi due colleghi Mario Garelik e Javier Slodky. Era una sera di novembre del 1974 e i tempi erano difficili e pericolosi per quelli che, come mio padre, difendevano gli operai e i loro diritti. 
Al “golpe” mancava ancora un paio d’anni, ma già si sentiva nell’aria che le libertà individuali erano appese ad un filo e non si sapeva bene fino a che punto si sarebbe intensificata la violenza. Loro tre però lavoravano sempre con buon umore e, anche se si occupavano di argomenti seri, nello studio si scherzava e non mancavano mai le risate, perché Takashi, Mario e Javier non erano solo colleghi, ma anche amici. 
Quella sera, nell’ufficio del quartiere di Avellaneda, dovettero prendere una decisione veloce, senza stare a pensarci troppo. Dallo spioncino della porta si vedevano una decina di uomini armati, sicuramente non il genere di persone con cui si poteva ragionare. 
Decisero di scapare attraverso i tetti del condominio. Mio padre, che era sempre stato molto bravo nello sport, apriva la strada facendo vedere a Mario e a Javier dove saltare. Dal loro edificio saltò in un terrazzo non troppo lontano, e da lì verso un’insegna appesa di fronte al panificio sul viale Mitre. Lui e Javier riuscirono a prendere la rincorsa per aggrapparsi al cartello, ma Mario non riuscì a correre abbastanza e si ferì ad una mano. 
Sotto il governo di Perón, il ministro della Previdenza Sociale José López Rega fondò la Triple A (Alianza Anti-Comunista Argentina, dichiarata responsabile di crimini contro l’umanità nel 2006), reclutando poliziotti e militari di estrema destra. Questi squadroni della morte perseguitavano, facevano scomparire e uccidevano intellettuali, artisti, studenti, politici di sinistra o dell’opposizione e chiunque a loro avviso costituisse una minaccia per il potere. Giudici e carnefici rendevano nulli i diritti umani e dei cittadini, con il tacito assenso della presidente Isabel Martinez de Perón, che aveva rimpiazzato il marito dopo la sua morte, il 1 luglio del 1974.
La Triple A aveva cercato più volte di sequestrare mio padre. Dopo quella sera di novembre, tornarono a fare un’altra perquisizione all’inizio del 1975, ma per fortuna si sbagliarono e andarono a casa del cugino di mio padre, un suo omonimo che aveva in comune anche il titolo di dottore, però in Medicina, non in Giurisprudenza. Quando il cugino di mio padre ci fece sapere che lo cercavano ancora, quella sera non tornammo a casa e finimmo a dormire a casa di parenti. 
Dopo quel giorno, mio padre e Javier scapparono verso la costa, a Necochea, a sud della capitale, dove mio nonno materno Giovanni aveva una casa, poi, tornati a Buenos Aires, si nascosero in un’altra casa vuota di mio nonno Katsu. 
Non sapendo bene cosa fare, mio padre chiese asilo politico all’ambasciata messicana e con l’aiuto della ragazza di Javier riuscì ad ottenerlo. Andammo quindi tutti e quattro a stare all’ambasciata mentre mio padre portava avanti le carte necessarie per l’espatrio. Mio fratello era nato un paio di giorni prima e mia mamma non stava ancora bene. L’ambasciata era circondata da militari argentini che sorvegliavano e a volte sequestravano chi usciva: portare un medico per visitare mia madre era un rischio che non tutti volevano affrontare, ma Garelik riuscì a convincere il nostro medico di famiglia ad assicurarsi che mia madre stesse bene.
Dopo circa un mese, un giudice del regime chiese l’habeas corpus per mio padre, chiudendogli così di fatto ogni possibilità legale di fuga. Alla fine, il governo messicano non riuscì a concedergli l’asilo politico e mio padre ritornò ad essere ancora una volta un bersaglio fisso che poteva essere sequestrato da un momento all’altro. Ma lui comunque continuava a lottare per i diritti degli operai: l’ultima causa che stava seguendo era contro una fabbrica il cui padrone era Martinez de Hoz, il ministro dell’economia della dittatura.
Dopo la perquisizione dei militari ed il fallito tentativo di ottenere un visto per l’espatrio dall’ambasciata messicana, nello studio, che di solito aveva un andirivieni di 30-40 clienti al giorno, non si vedeva più nessuno:gli operai, per paura, smisero di venire e la società si sciolse.
Mio padre iniziò allora a collaborare con un altro avvocato, Enrique Gastón Courtade, che aveva lo studio là vicino e che si occupava anche lui di diritto del lavoro. Fu l’inizio della fine. 
La sera del 21 aprile del 1977, quattordici uomini armati, vestiti in borghese, fecero irruzione nello studio legale e costrinsero mio padre ad “accomodarsi” in una Ford Falcon diretta verso una destinazione che non prevedeva ritorno.
In quel momento, io, il mio fratellino Leo e Beba, mia mamma, come tutti la chiamavano, stavamo nell’appartamento di Via Acoyte 222, nel quartiere di Caballito a Buenos Aires. Tutto era pronto per la cena: qualcosa bolliva sui fornelli, la tovaglia di cottone arancio fiorito era stesa e i piatti di porcellana bianca aspettavano impazienti. 
Mi ricordo che stavo seduta in salotto sul freddo divano di pelle nera, una coperta di lana pizzicava la mia pelle e guardavo la TV in bianco e nero, cercando di concentrarmi sul programma. Non avevo idea dell’ora, avevo appena cinque anni, ma sentivo che l’attesa di papà stava diventando lunga, troppo lunga.
Aspettare papà alla sera era uno dei momenti più belli della giornata. Quando il sole scendeva e mia mamma finiva il suo lavoro nella ditta tessile di famiglia nel quartiere di Boedo, i nonni ci accompagnavano a casa in macchina. Io giravo la manopola dell’autoradio e con mia nonna cantavo a squarciagola le canzoni popolari mentre mio nonno Giovanni, anche se intento alla guida, parlava di continuo e raccontava storie di quando era piccolo in Italia, e i venti isolati scorrevano veloci fino al nostro appartamento. 
Poi mia madre trafficava con le pentole e io tendevo sempre l’orecchio per sentire le chiavi girare nella serratura della porta d’ingresso. Appena vedevo entrare mio padre, gli correvo incontro e lo abbracciavo felice; subito dopo gli davo dei disegni o qualche lavoretto che avevo creato a casa dei nonni.
La notte del 21 aprile mia madre continuava a tenere gli occhi sull’orologio, mentre io fissavo la porta bianca aspettando il rumore delle chiavi. Finalmente sentimmo il cigolio della porta dell’ascensore che si apriva. Mia madre corse per vedere, ma la delusione quasi ci stordì quando scorgemmo il vicino che camminava verso il suo appartamento. 
Ero ancora una volta sul divano, ma non riuscivo a tenere gli occhi aperti; mio fratello era già da un bel po’ che dormiva. Mamma mi disse d’andare a letto, ed io, sconfortata dalla fine della serata senza esito, le obbedii. Mi addormentai sfinita, non capendo come mai papà non fosse tornato. 
All'improvviso mia madre mi chiese di alzarmi e di vestirmi in fretta mentre lei s’occupava di Leo. Tornammo a casa dei nonni Teresa e Giovanni. Questa volta era come se i venti isolati si fossero moltiplicati. Non riuscivo ad aprire bocca e a chiedere a mamma cosa fosse successo; sentivo la sua tensione. Che differenza facevano poche ore! Quello stesso tragitto, che prima era stato pieno di musica e risate, ora era sostituito da un silenzio insopportabile. Seppi che eravamo finalmente vicino alla casa dei nonni appena vidi lo stadio di San Lorenzo de Almagro: loro abitavano proprio lì di fronte. 
Mio padre era un grande tifoso di calcio (aveva anche giocato come semi-professionista nel Huracán per qualche tempo) e ogni tanto mi portava allo stadio per guardare le partite dei classici rivali: Huracán-San Lorenzo. Era una delle nostre uscite “segrete”, all’insaputa della mamma, che altrimenti si preoccupava se sapeva che ero in mezzo ai tifosi. Quella sera, nel ritorno a Boedo, i ricordi ed i posti visitati con mio padre li vedevo sotto un’altra luce. Le parole non dette di mamma mi avevano fatto capire che qualcosa era andato terribilmente male. Era la prima volta che la vedevo piangere. 
La mamma e il nonno decisero di andare nello studio di mio padre all’Avellaneda con la speranza di trovarlo. 
Quando arrivarono, il Citroën rosso di Takashi aveva tutte le porte spalancate (non erano riusciti a portare via la macchina perché aveva un dispositivo per togliere la corrente all’alternatore), lo studio era in disordine e puzzava di bruciato, c’erano carte ovunque e nessuna traccia di lui e del socio. Testimoni dissero che i militari tornarono nello studio una seconda volta per rubare, bruciare e distruggere. 
Guardando indietro, penso che sono stati fortunati a non incontrare i militari, altrimenti avrei perso non solo mio padre ma anche mio nonno e mia madre. 
Dopo un po’, mia madre e mio nonno tornarono a casa, ma soli. Da quella notte mia madre cominciò l’interminabile strada piena di porte in faccia e di rifiuti da parte delle autorità per dare una risposta alla sorte di suo marito. 

“Algo habrán hecho si se lo llevaron” - “No te metas” 

(“Qualcosa avranno fatto se l’hanno portato via” - “Non ti coinvolgere”)
Due frasi che risuonavano quotidianamente fra i cittadini argentini e che inducevano a comportarsi di conseguenza: “non coinvolgerti; guarda da un’altra parte; non alzare la testa”, abbinate alle frasi per farti sentire meglio e al sicuro, che ti facevano credere di essere fuori dalla portata dei militari se solo il tuo atteggiamento fosse stato quello di tenere la testa bassa e non fare o dire niente che potesse allarmare, o che mostrasse il tuo talento o il tuo coraggio. 
Erano parole che funzionavano anche come un avvertimento per quelli che le ascoltavano, che spingevano a non prendere una posizione e a ribellarsi alla dittatura, allo status quo, accettando la repressione e la violenza in silenzio. 
Allo stesso tempo riuscivano anche a mettere dei dubbi sulle qualità umane dei desaparecidos: se i militari li hanno portato via, sarà stato perché non erano dei bravi cittadini. E qualcuno poteva pensare, in linea con la mentalità dei Porteños che si auto-nominavano i migliori (“Los Derechos y Humanos” era lo slogan preferito dalla dittatura che per tanti come me sembrava assurdo), che, in uno Stato ‘sviluppato’, dei ribelli non si meritavano forse di essere portati davanti ai tribunali?
Ma io ho un’altra versione, quella che ho elaborato dopo aver conosciuto le storie e le vite di tanti altri desaparecidos come mio padre. I militari eliminavano chiunque avesse qualcosa da dare all’Argentina: intellettuali, scrittori, avvocati, sindacalisti, artisti, sportivi, studenti che lottavano per un biglietto dell’autobus a posta per loro, professionisti in qualsiasi campo: tutti quelli che potevano un giorno occupare un posto importante; leader in un futuro non molto lontano. 
Nella dittatura civico-militare (1976-1983) c’erano campi di concentrazione e di sterminio come quelli della Germania nazista, i militari li chiamavano “centri di detenzione clandestini”: i cittadini che si opponevano alla giunta militare venivano sequestrati, incappucciati, torturati e i loro nomi diventavano dei numeri che erano costretti ad imparare a memoria, poi venivano eliminati, uccisi e i loro corpi bruciati o buttati in fosse comuni senza nemmeno un segno di riconoscimento; molti vennero eliminati attraverso quelli che chiamavano i voli della morte: li gettavano dagli aerei in mare lungo la costa. 
Furono più di cinquecento i centri di detenzione, almeno trentamila le persone ammazzate.
Se le donne erano incinte, aspettavano che queste partorissero per strappare via dalle loro braccia i figli, per consegnarli in adozione alle famiglie vicine ai carnefici o a se stessi.
La dittatura, con la scusa dei "terroristi che mettevano bombe”, distrusse un potenziale umano che non potrà mai essere sostituito. Il fenomeno della guerriglia era un fenomeno minoritario sfruttato dai militari per avere carta bianca e commettere abusi e sterminare un’intera generazione. 
Penso non sia una coincidenza che la classe politica in Argentina si trovi nello stato attuale, con un presidente bravo solo a svalutare la moneta e a far diventare i poveri sempre più poveri, con un debito estero sempre più alto e col territorio argentino svenduto a interessi stranieri, e così via.
Oltre alla repressione mortale, gli operai perdettero i loro diritti e i dirigenti sindacali furono perseguitati o fatti forzatamente sparire. Molte delle fabbriche chiusero i battenti a causa delle nuove politiche d’apertura commerciale imposte dalla giunta e a un’importazione indiscriminata di merci dall’estero, e la maggioranza dell’industria argentina fu distrutta dopo l’eliminazione delle agevolazioni per promuovere la crescita interna. 
La dittatura decise di usare la parola “desaparecido” per designare gli oppositori ammazzati. Non solo si cercava di nascondere i massacri dei concittadini, ma anche i loro corpi: c’era il tentativo scientifico di cancellare l’identità e la storia di migliaia di persone. Senza una tomba dove piangere, si perdeva la memoria fisica del lutto.
Proprio questo successe alla mia famiglia. Oscar “Takashi” Oshiro era mio padre; difficilmente chi legge questo nome riesce a riconoscerlo, ma per me e la mia famiglia lui era il faro delle nostre vite. Mio padre aveva 36 anni quando fu sequestrato, era sposato con mia madre, Edvige “Beba” Bresolin, e aveva due figli, Leonardo ed io, Gabriela.
Eravamo una famiglia come tante altre, attorno a noi c’erano parenti e amici. Le nostre vacanze erano al mare, ed avevamo tanti sogni da realizzare.
La mia famiglia era “interculturale”, anche se questa parola negli anni settanta probabilmente non veniva molto usata. La famiglia di mio padre era dell’isola di Okinawa, a sud del Giappone, e la famiglia di mia madre era di origine italiana. In quel periodo non era molto comune che i Nikkei (i discendenti di giapponesi) sposassero persone appartenenti ad altre razze. Ma mio padre era diverso, e penso che non sia una coincidenza se ognuno dei 17 desaparecidos Nikkei abbiano scelto dei compagni al di fuori della comunità giapponese. Credo sia stato per la loro mentalità d’integrazione nel paese dove abitavano. 
Takashi conosceva la storia del Giappone come quella dell’Argentina, conosceva le tradizioni dei suoi genitori e la lingua, ma accolse le tradizioni argentine a braccia aperte: giocava a calcio, beveva mate, ascoltava il tango e la musica folkloristica argentina. Era molto affettuoso, ed anche questa è una caratteristica non molto comune tra i giapponesi.

Nikkei in Argentina

Nella prima metà del XX secolo i giapponesi arrivavano in Argentina attratti dalle opportunità economiche che offriva il paese. L’idea centrale era quella di guadagnare abbastanza per tornare in Giappone, ma dopo la sconfitta nella seconda guerra mondiale (1939-1945), la maggioranza decise di rimanere e fare dell’Argentina il paese dove ricostruire una nuova vita, pur cercando di mantenere intatti la lingua e le tradizioni culturali.
I giapponesi in Argentina formarono una comunità molto unita e chiusa. Mio padre e sua sorella Yoko studiarono la lingua giapponese nella scuola Nichia Gakuin. Gareggiavano in atletica leggera negli undokai, (competizioni sportive tra club giapponesi). Mio padre faceva karatè spinto da mio nonno Katsu, che aveva imparato al liceo Shuri di Naha, Okinawa.
I giapponesi con le loro famiglie si consideravano degli ospiti, preferivano avere un basso profilo nella società argentina: non si impegnavano in politica e si sposavano tra di loro.
Mio padre invece voleva essere partecipe ed evitare di rimanere al margine di tutto. Voleva cambiare lo status quo. Sfidò la tradizione dei genitori e si sposò con mia madre. Era fermo nelle sue convinzioni, ma senza mai mancare di rispetto o alzare la voce. Faceva tutto con passione ed entusiasmo e aveva la mentalità e le caratteristiche di quelli che lasciano una traccia nel mondo. Per molti anni non ho capito il suo impegno per difendere i lavoratori e i più bisognosi. Dopo un lungo periodo di riflessione, però, posso adesso immedesimarmi con lui e capisco che quell’impulso per il suo lavoro è lo stesso che io metto nell’arte e nella musica. Mi sembra così di non sentirlo troppo lontano. 
Mio padre era un ibrido di due culture differenti che lui amava allo stesso modo. Quando penso a lui lo ricordo sorridente e con la testa immersa in un libro. La sua sete per il sapere era notevole, parlava giapponese, spagnolo, italiano e poco prima del sequestro aveva iniziato a seguire lezioni di francese alla Alliance Française. Non faceva mai le cose a metà, trasformava le sue parole in fatti.
Aveva studiato giurisprudenza per due anni all’università di Buenos Aires ma decise di abbandonare per capire in prima persona i bisogni e le lotte degli operai. Cominciò a lavorare nella fabbrica metallurgica BTB del quartiere di Avellaneda. Fu un rappresentante sindacale fino a quando non lo licenziarono durante uno sciopero nel 1972.
Quando fu licenziato Takashi consultò lo studio legale di Javier Slodky e Mario Garelik. Entrambi gli avvocati erano d’accordo con il parere che gli aveva dato Beba, quello di continuare gli studi per poter difendere meglio gli interessi dei lavoratori. 
Mio padre finì la facoltà in un terzo del tempo impiegato dagli altri studenti. Contemporaneamente lavorava come associato nello studio di Garelik e Slodky dove arrivavano trenta, quaranta operai al giorno. Come ricorda Mario Garelik, nel quartiere erano soprannominati “I ragazzi che difendono i poveri”. 
Il sequestro di Takashi fu un colpo terribile per la mia famiglia. Mia madre però, dopo le lacrime del primo momento dopo la scomparsa, non si sentiva mai sconfitta e ogni giorno per lei era un’occasione per trovare suo marito. Partiva presto al mattino e tornava tardi alla sera. Mio fratello ed io restavamo dai nonni materni. Quando arrivava la sera, mia nonna entrava nella mia stanza affacciata sulla strada, spegneva la luce e insieme guardavamo con impazienza tra le fessure delle persiane, cercando di mitigare un poco quell’ansia con un piccolo spettacolo di ombre cinesi che il lampione fuori ci aiutava a mettere in scena sulla parete dietro di noi.
Per noi era un’altra sera che finiva e tiravamo un sospiro di sollievo solo dopo l’arrivo di mamma. Vivevamo nel terrore che lei potesse essere la prossima, dopotutto non sarei stata l’unica ad avere entrambi i genitori sequestrati. Quando arrivava, scendevamo velocemente le lunghe scale di marmo verso il garage per aprirle il pesante portone di ferro e chiederle così le novità sulla ricerca.
Mia madre non aveva paura di nessuno, parlava apertamente come se ci fosse la democrazia e, anche se io la ammiravo per il suo coraggio, non riuscivo a non sentire paura per la sua vita.
Nella sfortuna ebbe però la fortuna di conoscere Mary Higa, la sorella di un altro desaparecido Nikkei, lo scrittore e poeta Juan Carlos Higa che lavorava per La Plata Hochi e Akoku Nippo, i due giornali della comunità giapponese. Mary insegnava catechismo e aveva una tintoria nello stesso quartiere dei miei nonni paterni, dove mia madre aveva aperto un negozio di giocattoli e libreria.
Mary diventò parte delle nostre vite e ci fece sentire che Beba non era più da sola nella sua ricerca. La sua presenza mi faceva sentire un po’ più tranquilla. Decisero di unire le proprie forze e di estendere la ricerca anche ad altri desaparecidos Nikkei, un impegno che le portò fino alla fondazione del gruppo dei Familiari della Comunità Giapponese in Argentina. Dopo più di quarant’anni questo gruppo cerca ancora le risposte che il governo argentino non ha mai voluto dare e lotta perché si ritrovino i resti dei loro familiari. 
Per i giapponesi è tradizione onorare gli antenati in un altare familiare, il butsudan; per questo motivo è ancora più importante sapere dove sono seppelliti, per riuscire finalmente a realizzare tutti i riti necessari e rispettare i costumi.

Beba Bresolin

Mia madre aveva una missione da compiere, quella di riabbracciare Takashi. 
Non si perdeva mai d’animo. Lei e Mary Higa, che cercava suo fratello Juan Carlos Higa, continuarono a cercare insieme per dieci anni.
Solo pochi anni fa ho veramente capito il suo lavoro. Per me erano lunghe le ore mentre aspettavo impaziente il suo ritorno dalle ricerche. 
Ogni volta che i programmi alla TV venivano interrotti per diffondere in diretta a diffusione nazionale i discorsi della dittatura, e vedevo quei volti truci, responsabili della scomparsa di mio padre, mi veniva un nodo allo stomaco.
I miei giorni passavano aspettando il ritorno dei miei genitori. Se qualcuno suonava il campanello correvo alla porta augurandomi di vedere mio papà. 
Osservando l’atteggiamento di mia madre, che durante dieci anni continuava a cercare mio padre, io vivevo con la speranza che lei l’avrebbe prima o poi ritrovato. Se lei continuava a lottare e a cercarlo, per me voleva dire che Takashi era vivo e mai avrei pensato il contrario: se l’ultima volta che l’avevo salutato prima d’andare al lavoro era in vita, doveva essere così anche quando l’avrei rivisto la prossima volta. 
Nella sua ricerca, mia mamma aveva trovato un testimone che diceva di aver visto mio padre in un centro clandestino di detenzione nella provincia di Buenos Aires. Così ci fece salire tutti sulla Renault 12 per correre immediatamente nel luogo segnalato. Era il giorno che aspettavamo da tempo. Dopo un po’, sulla strada che portava all’aeroporto, parcheggiò di fronte ad un edificio con delle alte pareti grigie. Ci lasciò con nonna Teresa e si avviò da sola verso il portone. Dopo un tempo che mi è parso interminabile ritornò in macchina. Ci disse che qualcuno rispose alla porta dicendo di non tornare mai più a chiedere. Quel giorno comunque non morì la speranza e continuai a correre verso la porta ogni volta che il campanello suonava.

Enrico Calamai, console italiano.

Mia madre aveva la cittadinanza italiana e aveva vissuto diversi anni in provincia di Vicenza, tra il 1960 e il 1964. Secondo la legge italiana, grazie al matrimonio, mio padre aveva diritto ad acquisire la cittadinanza italiana. Visto che il governo giapponese aveva negato le varie richieste fatte dai familiari per intercedere davanti al governo argentino per la liberazione dei desaparecidos Nikkei, mia madre si rivolse al consolato italiano. 
Il console italiano a Buenos Aires in quel periodo era Enrico Calamai. Egli aprì un fascicolo nel Consolato a nome di mio padre e fece le pratiche per un nuovo passaporto nell’evenienza che Takashi fosse rilasciato dalla dittatura. L’Italia sarebbe stato il paese dove rifarci una vita, e così fu, purtroppo senza mio padre.
Per molti anni ho pensato che il governo italiano fosse stato quello che aveva accolto a braccia aperte mia madre e tanti altri connazionali, ma tutto il credito deve andare al lavoro personale di Enrico Calamai e al suo impegno a salvare centinaia di cittadini italo-argentini e non allo stato che rappresentava.
In un’intervista Calamai disse a proposito degli anni vissuti in Argentina: “Credo di essere riuscito a muovermi in situazioni complicate, perché sapevo quello che era in rischio e cioè delle vite umane. E mi rendevo conto del privilegio, enorme privilegio, che la situazione mi concedeva, e cioè di potere aiutare, di potere veramente rendermi utile, tutto qui”.
E, in occasione del ricevimento nell'ambasciata Argentina in Italia della Gran Cruz del Orden del Libertador San Martin per le attività in difesa dei diritti umani durante la dittatura argentina, disse: “La mostruosità di quello che accadde in Argentina sta in primo luogo nella metodologia usata, che fa fare un salto di qualità alla ferocia di stampo nazista, fino a spingerla oltre le categorie del pensabile, fino a renderla invisibile, irrappresentabile e quindi negabile. 
Nel centro di Buenos Aires in effetti tutto sembrava continuare nella più assoluta normalità, il traffico era quello di sempre, le stesse erano le file davanti ai cinema, ai teatri, ai concerti, la città conservava la sua vivacità anche se non più la sua effervescenza culturale. Tra i tanti segnali multicolori di un'immutata scenografia urbana, soltanto l'improvviso apparire delle Ford Falcon senza targa richiamava, come la pinna di un pescecane, una realtà sommersa di tortura e sterminio. Si sapeva e non si sapeva quello che accadeva di notte, qua e là nella sterminata periferia della capitale, ma certo i giornali e le televisioni non ne parlavano. Era tutto talmente elusivo, che chi non era direttamente colpito poteva negare o minimizzare o dire di non sapere per continuare a fare la propria vita. Era un terrore reso ancora più invasivo della vita individuale e collettiva, dalla stessa indecifrabilità del suo operare. Il fatto che siano stati in tanti a negare va valutato con grande attenzione: dimostra la portata devastante del trauma cui è stato sottoposto il popolo argentino…”

La fine della dittatura

Nel 1983 Raúl Alfonsín diventò presidente dell’Argentina eletto democraticamente. La dittatura finalmente era finita dopo più di sette anni di terrore e morte. Durante la campagna elettorale Alfonsín promise al popolo che non ci sarebbe stata impunità per il genocidio commesso dalla Junta, dalle forze dell’ordine e dai seguaci coinvolti nella repressione. Tante famiglie, che aspettavano il ritorno dei desaparecidos, continuavano a sperare che con la democrazia sarebbero tornati i loro cari. 
“Gaby, vieni qui che dobbiamo parlare”, disse mia mamma. Entrai in camera sapendo che doveva dirmi qualcosa d’importante: “Penso che rivedremo tuo papà molto presto! Con il ritorno della democrazia, non gli resta che liberare i prigionieri”. E mi fece sentire felice in quel momento, ma in realtà penso che mia madre volle auto-convincersi dicendo quelle parole ad alta voce; parole che purtroppo non si sono mai avverate.
Mia madre aveva conosciuto Alfonsín quando faceva l’avvocato. Era andata con una comune amica, Clarita Israel, madre di Teresa Israel (avvocata e attivista della Lega Argentina per i Diritti dell’uomo), per chiedere se si poteva fare qualcosa per ritrovarli.
Nel 1985 il governo del presidente Raúl Alfonsín iniziò la causa contro le giunte della dittatura (Juicio a las Juntas) per le violazioni dei diritti umani tra il 1976 e il 1983. Gli accusati di crimini contro l’umanità, Videla, Massera e altri, furono condannati all’ergastolo. 
Nel 1987, dopo la prima rivolta dei militari Carapintadas, il presidente Alfonsín firmò la legge di Obediencia Debida che riduceva la possibilità di perseguire i responsabili di crimini contro l’umanità, torture e omicidi. Dopo altre rivolte militari tra il 1987 e il 1990, il presidente Carlos Saúl Menem decise di dare l’indulto ai genocidi. Le leggi d’impunità instaurate in seguito a favore dei militari furono un colpo molto forte per mia madre e le famiglie delle vittime del terrorismo di Stato. 
Nel 2003, durante il mandato di Néstor Kirchner, il Congresso Nazionale annullò gli indulti e le leggi di Obediencia Debida e Punto Final. Mia madre non ebbe l’opportunità di vedere quel giorno; vide solo la mancanza di giustizia da parte del governo argentino e gli assassini camminare liberi per strada.

Italia

Quando mia madre capì che con la democrazia mio padre non sarebbe mai più tornato, mi chiese se volevo andare via dall’Argentina. Questo significava risolvere problemi pratici: per viaggiare avevamo bisogno dei passaporti e dell’autorizzazione di mio padre, che, essendo desaparecido, era considerato dalla legge argentina ancora in vita. 
Riuscimmo ad avere un’autorizzazione all’espatrio per fini turistici, che si convertì poi in una sorta di permesso a ‘vacanze permanenti’ per me e Leo fino al compimento dei 18 anni.
Arrivammo nella terra di mio nonno Giovanni che conoscevamo grazie alle sue storie su città recintate da mura, dalle canzoni che ascoltavamo alla radio ogni domenica, e attraverso il giornale La Domenica del Corriere che arrivava via posta. Finalmente potei vedere tutto con i miei occhi. 
Non dimenticai mai mio padre, ma non parlavamo mai di lui. Ci mancava in silenzio. Mia madre non si sposò di nuovo, neanche dopo avere ricevuto il certificato di morte.
Disse che Takashi era stato l’amore della sua vita, per lei rimpiazzarlo con un’altra persona non aveva senso. 

Kintsugi Installazione d’Arte

Kintsugi é l’arte di riconoscere la bellezza nell’imperfezione. 
Nella tradizione giapponese, se un vaso si rompe non si butta via, ma si uniscono i pezzi con l’oro. Il nuovo oggetto che si crea è ancora più bello per la sua storia, le crepe e per essere stato in frammenti. 
La parola kintsugi (Kin/oro tsugi/riparare) mi è sembrata la metafora adatta ad esprimere l’impegno dei familiari dei desaparecidos per ricostruire la Memoria affrontando il dolore che questo implica. 
Sto parlando di uomini e donne che hanno avuto il coraggio di andare avanti anche se si sono trovati con le vite a pezzi dopo che si sono visti portar via in un attimo i loro cari. Persone che per più di quarant’anni hanno vissuto in un crudele limbo di speranza e di incertezza, visto che il ritrovamento dei corpi è difficoltoso ed ostacolato, ancora oggi. 
Anche se mia mamma era quella che lottava ogni giorno per ritrovare mio padre, che affrontava l’assenza di Takashi, io non avevo mai elaborato la sua scomparsa. 
Avevo lasciato mio padre in un angolo dei miei ricordi, dove non permettevo che uscisse per paura che sparisse anche da lì. Così riuscii ad andare avanti. Ma quello che non affronti prima o poi ritorna con più forza. 
Non avevo idea da dove cominciare, ma avevo bisogno di guardare mio padre negli occhi. Dopo una vita passata a ricostruire dimenticando, ho voluto finalmente ricordare. 
Mi sono presa la responsabilità di fare diventare reali i diciassette Nikkei desaparecidos, di trasformarli con colori forti, vibranti e di portarli qui con noi in un’occasione speciale come si fa con i kakemono nelle case giapponesi. Non ho mai molto apprezzato il modo col quale venivano raffigurati nelle manifestazioni e nei ricordi pubblici: erano sempre riproduzioni delle immagini in bianco e nero dei documenti di identità. Io non ho mai pensato a mio padre in bianco e nero: la nostra era una vita piena di emozioni, letture e canzoni, e quelle facce appiattite dalla riproduzione fotografica non le ho mai trovate corrispondenti al mondo che ricordavo. Ogni pennellata di colore che sono riuscita ad aggiungere a quei pallidi volti era il riempimento di un po’ del vuoto che aveva avvolto giorno dopo giorno l’immagine di mio padre dal giorno che mi fu portato via. 
Ho voluto fare dei ritratti veri, come se loro avessero veramente posato per me. “Tutto ciò che puoi immaginare è reale!”, diceva Picasso, e queste sue parole hanno risuonato fin dall’inizio di questo progetto. Tutto quello che ho dipinto è stato reale: per un attimo sono riuscita a guardare mio padre negli occhi, e così ho desiderato che anche le altre famiglie Nikkei avessero davanti i loro cari.
Nel settembre-ottobre del 2016, nell’Espacio Cultural de la Biblioteca del Congreso de la Nación di Buenos Aires, nell’occasione del centesimo anniversario della fondazione della Asociación Japonesa in Argentina e nell’ambito delle Jornadas “Japón y Argentina Integrados por el Arte”, ho potuto presentare la mostra che è scaturita da questa ricerca. In questo luogo ho pensato, insieme al mio amico Germano, ex compagno di classe del Liceo Artistico, un’installazione in cui 17 porte, una per ritratto, disposte in circolo e incardinate una nell’altra, formassero uno spazio nello spazio in cui creare la necessaria intimità che permettesse a ogni familiare di restare a vis à vis col proprio caro.
Desidererei che azioni come quella di mio padre e dei Nikkei contro la dittatura in Argentina non rimanessero chiuse all’interno delle polverose scatole della memoria, ma camminassero per il mondo: le azioni da sole non sono sufficienti, devono essere raccontate da testimoni, e per molte generazioni, perché divengano atti veramente compiuti. 
L’anno prossimo, per continuare la mia ricerca che adesso è diventata un lavoro di gruppo insieme a Germano, abbiamo in programma di presentare la seconda parte di Kintsugi al Museo de las Américas in Denver, Colorado.
La parola “desaparecido” significa scomparso ed è così che li voleva “La Junta”. Con il nostro gesto di far “riapparire” i 17 Nikkei di fronte a dei “testimoni”, facciamo diventare il pubblico partecipante attivo della reazione contro gli atti barbarici e inumani commessi dai militari argentini.
Per quanto riguarda le mie attività espositive, ho il sostegno degli altri familiari Nikkei: per loro, sapere che non sono soli, che persone lontane riconoscono il loro impegno di vita per trovare risposte e giustizia, è motivo di grande conforto e ciò fa che anche il mio lavoro abbia un senso oltre il semplice fatto artistico.

Quello che ho capito

Cos’é successo a mio padre? Com’é capitato tutto questo? A cosa o a chi pensava? Qual é stato il suo ultimo pensiero? Dove si trova sepolto?
Takashi era così ottimista e ostinato, sono sicura che lui non aspettava altro che riabbracciare mia madre. Forse capì che ci sono persone con cui non si può ragionare. 
Takashi amava l’arte di creare: era molto abile a intrecciare le parole per creare un discorso, per comunicare con il prossimo.
Avrò mai delle risposte senza il bisogno di congetture? Spero proprio di sì. Ma finora il mondo esterno non me le ha date, per questo ho scelto la via introspettiva. Tutto quello che ho analizzato è passato attraverso i quadri. Dipingere il volto di mio padre mi conferma che non è stato un frutto della mia immaginazione, ma che lui è stato qui, vicino a me. Posso ricordare le nostre gite allo zoo di Buenos Aires o al parco Rivadavia, oppure quando camminava sulle mani nella spiaggia di Necochea, mentre mia mamma rideva spensierata. Non è stato un sogno, ma un uomo in carne e ossa. 
Oscar Takashi Oshiro, mio padre, non era un N.N. (Nomen Nescio), non era neanche un numero come quelli assegnati nei centri di detenzione clandestini. 
I desaparecidos sono stati ammazzati per le loro idee, i loro valori, soprattutto per la loro umanità e il loro impegno per gli altri esseri umani. Hanno fatto una scelta difficile e precisa, che non molti avrebbero il coraggio di fare. Non hanno guardato da un'altra parte, o sono stati zitti, e la paura non ha bloccato le loro azioni, ma si sono schierati per la libertà, la giustizia, la non omologazione. 
Mio padre decise di rimanere perché l’Argentina era il suo paese e non voleva separarsi dai suoi cari, dagli amici, dal posto dov’era cresciuto.
Sono fiera di mio padre anche se le sue scelte hanno segnato la mia vita, e, dopo 40 anni senza di lui, sto ancora raccogliendo i pezzi di quell’orribile puzzle. Ma sono pronta a parlare di lui, a raccontare ai miei figli del loro nonno coraggioso, e così forse sapranno misurare le loro scelte future quando arriverà il momento.

Voglio infine nominare qui uno ad uno i 17 Nikkei scomparsi e condividere, quale omaggio alle loro storie e alle vite dei trentamila desaparecidos argentini, una poesia di Juan Carlos Higa.

Juán Alberto Asato (27 anni, operaio presso la fabbrica Ducilo)
Ricardo “Daku” Dakuyaku (22 anni, studente della facoltà di Architettura - giocatore di rugby)
Julio Eduardo Gushiken (21 anni, impiegato)
Carlos Horacio Gushiken (22 anni, operaio presso Rigoleau)
Amelia Ana Higa (29 anni, studentessa di architettura)
Juán Carlos Higa (29 anni, giornalista-poeta)
Katsuya “Cacho” Higa (26 anni, sociologo)
Juán Alberto Cardozo-Higa (32 anni, impiegato)
Carlos Eduardo Ishikawa (26 anni, studente di Medicina e scienze della Comunicazione)
Luis Esteban Matsuyama Goyeneche  (23 anni, geometra, studente di architettura, fratello di Norma, sequestrato insieme a sua moglie Patricia Silvia Olivier Testa)
Norma Inés Matsuyama Goyeneche (19 anni, studentessa, incinta di nove mesi, sorella di Luis, uccisa a casa sua insieme al marito Eduardo Gabriel Testa)
Jorge Nakamura (21 anni, studente presso Nacional Buenos Aires)
Carlos Nakandakare (21 anni, ucciso quando tornava a casa dalla Triple A)
Jorge Eduardo Oshiro (18 anni, studente)
Oscar Takashi Oshiro (36 anni, avvocato difensore dei diritti dei lavoratori)
Juán Takara (33 anni, commercialista per la Direzione Generale delle Imposte)
Emilio Yoshimiya (29 anni, impiegato)

Con el Sueño y el Canto

No importa que otros sean lastre de mi vuelo,
O que sean perdigón o policía, mi vuelo volará con las palomas.
Y con las gaviotas y con todos los Juanes y los Pedros de mi pueblo.
Yo volaré y volarán conmigo.
Yo cantaré y cantarán conmigo mis hermanos.
Y cantaremos más allá de los tiempos,
donde ni la muerte pueda con el sueño y el canto.

Con i Sogni e il Canto

Non importa che gli altri siano zavorra del mio volo,
O che siano pallottola o poliziotto, il mio volo sarà con le colombe. 
E con i gabbiani e con tutti i Juanes e i Pedros del mio popolo.
Io volerò e loro voleranno con me.
Io canterò e loro canteranno con i miei fratelli.
E canteremo al di là dei tempi,
Dove neanche la morte potrà contro i sogni e il canto.


Articolo pubblicato sulla Rivista argentina, La Roca, numero 5 . Settembre 2018

Comments

Francisco said…
Estimada Gaby,
Interesado en el Kintsugi, conocí la historia de tu vida y expresión de la misma por medio del arte. Mi interés en este arte milenario, el Kintsugi, nace en que soy cirujano oncologico y trato cada día con mujeres que padecen cancer de mama. El Kintsugi me resulta una gran muestra de cómo la resiliencia es una forma de enfrentar este proceso y superarlo fortalecido. Estoy fundando una Clínica en la ciudad de San Juan, Argentina, destinada al tratamiento de esta enfermedad y tengo un especial interés de otorgar un espacio artístico a la institución basado en el Kintsugi. Me gustaría, si estás interesada, que formes parte de este proyecto. Sin mas, te saludo cordialmente. Francisco.

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